danno: mobbing e straining

L’obbligo del datore di lavoro di non recare danno alla sicurezza, libertà e dignità del lavoratore discendente dall’art. 2087 c.c., nel quale rientra l’obbligo di astenersi da iniziative, scelte e comportamenti stressogeni che possano ledere l’integrità psicofisica del lavoratore, grava quest’ultimo dell’onere di provare tutti gli elementi di fatto della condotta vessatoria ed il nesso causale tra questa e il danno patito.

Questo è quanto stabilito dallaCassazione, sez. lavoro, ordinanza 4 ottobre 2019, n. 24883 (testo in calce).

Sommario

La questione

I fenomeni sociali e giuridici del mobbing prima, e dello straining dopo, animano i dibattiti dottrinali e le aule di giustizia da ormai un ventennio circa, da quando lo psicologo Harald Ege diede per la prima volta la definizione di mobbing nel tentativo di inquadrare e dare una identità a tutte quelle situazione di conflittualità nei luoghi di lavoro capaci di incidere sull’integrità psico fisica del lavoratore che si trovi a subirne gli effetti.

Ege definì il mobbing come “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica”, in cui una o più persone divengono bersaglio, da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, di attacchi ad alto contenuto persecutorio, in costante progresso, con lo scopo di provocare nella vittima danni di vario tipo e gravità, rispetto ai quali quest’ultime si trovano nell’impossibilità di reagire adeguatamente con la conseguenza che, a lungo andare, le aggressioni subite causano in loro disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare ad invalidità psico-fische permanenti di diverso grado e genere (nei casi più gravi anche al suicido del mobbizzato).

L’assenza di un’autonoma disciplina legislativa del mobbing, ha demandato alla giurisprudenza il compito di definire le tutele del lavoratore mobbizzato, compito che, mutuando il pensiero della scienza medica, è stato, ed è ancora oggi, assolto dalla stessa in modo estremamente prudente e restrittivo, riconoscendo la fattispecie di mobbing, e il diritto al relativo risarcimento del danno, solo in presenza di elementi imprescindibili, quali la sistematicità, la lunga durata, la molteplicità delle condotte e l’intento persecutorio del mobber, onde prevenire azioni pretestuose, se non temerarie, ed evitare lo svuotamento del potere direttivo di cui il datore di lavoro è comunque titolare.

La fattispecie così tipizzata, tuttavia, lasciava scoperte ipotesi di ostilità e avversione perpetrate ai danni dei lavoratori da parte del datore di lavoro, o suoi preposti, che, pur non potendosi definire mobbing in senso stretto, si pongono allo stesso modo come condotte idonee a provocare disagio e malessere nel lavoratore che le subisce, e quindi come fonti di danno all’integrità psico-fisica dello stesso.

Ed è sempre la scienza medica, e sempre lo psicologo Ege, ad inquadrare per la prima volta tali condotte o azioni sotto il termine straining, definito come “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro”, in cui la vittima, posta in persistente inferiorità rispetto alla persona che lo attua, subisce almeno un’azione caratterizzata da forte stress e posta in essere con l’intento specifico di discriminarla e di provocare un peggioramento costante e permanente della sua condizione lavorativa, o di quella di tutte le persone coinvolte (si pensi, per tutte, allo svuotamento di mansioni).

Lo straining, in sostanza, secondo tale scienza, si pone a metà strada tra il normale stress occupazionale connaturato alle ordinarie interazioni aziendali lavorative ed il mobbing, rispetto al quale ha sicuramente in comune l’alta componente intenzionale e discriminatoria delle azioni ma se ne allontana per la carenza in esso della continuità e frequenza degli atti persecutori – essendo sufficiente anche una sola azione, purché ad effetti duraturi - che del mobbing sono, viceversa, componente essenziale.

La definizione di straining di derivazione medica è stata, allo stesso modo, recepita dalla giurisprudenza - per la prima volta nel 2005 (Trib. Bergamo 286/2005) – che ne ha, a sua volta, elaborato il tipo e definito i tratti caratteristici, individuando in particolare il discrimine dal mobbing nella particolare aggressività del comportamento datoriale, manifestata attraverso la repentinità o la natura eclatante dell’azione o insita nelle specifiche circostanze del demansionamento, ovvero nel concomitante verificarsi di altri atti o provvedimenti volti ad isolare anche dal punto di vista umano il lavoratore, ma, al pari di questo, qualificandolo idoneo a provocare problemi di autostima e salute, turbative professionali e di serenità familiare, incidenti sovente sulla qualità della vita del soggetto leso.

Nell’individuazione delle tutele apprestabili al lavoratore vittima di simili condotte, e nel persistente vuoto normativo, la giurisprudenza ha da subito ricondotto entrambe le fattispecie entro l’ambito di applicazione dell’art. 2087 c.c., dacché norma aperta e strumento sanzionatorio atto a punire tutte quelle condotte del datore di lavoro capaci di ledere la personalità e la dignità del lavoratore, configurando, pertanto, in capo al datore di lavoro una responsabilità di tipo contrattuale, che porta con se, sul piano processuale, la conseguente operatività del relativo regime probatorio ex art. 1218 c.c.

L’orientamento giurisprudenziale dominante, invero, grava il lavoratore dell’onere di provare tutti gli elementi di fatto che connotano la condotta vessatoria, e quindi l’inadempimento e il nesso causale tra questo e il danno patito, spettando invece al datore di lavoro provare l’assenza di colpa, e dunque che gli atti e i comportamenti posti in essere sono conformi all’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c., che in ogni caso non sono tra loro collegati da un intento persecutorio o discriminatorio, ovvero che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione dipendente da causa a lui non imputabile.

La decisione

In questo filone giurisprudenziale si inserisce anche la recente ordinanza della Corte di Cassazione Sezione lavoro n. 24883 del 4 ottobre 2019, emessa in esito al giudizio di legittimità incardinato da una lavoratrice vistasi respingere, nei due gradi di merito, la domanda volta ad accertare nelle condotte asseritamente vessatorie subite dal proprio datore di lavoro una fattispecie di mobbing e/o straining e il diritto al relativo risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa di tali condotte.

La Suprema Sezione lavoro ricorda, in prima battuta, che ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, in adesione al prevalente indirizzo giurisprudenziale, “l’elemento qualificante che deve essere provato da chi assume di aver subito la condotta vessatoria va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica”, sicchè l’assenza di elementi idonei a rilevare tale intento nella fattispecie concreta non ne consente il suo accertamento.

Nondimeno, la Corte osserva che l’intento persecutorio perde la sua forza dirimente se dagli elementi dedotti in giudizio, per la particolare gravità, frustrazione personale o professionale, ovvero per altre circostante del caso concreto, sia possibile risalire all’esistenza di una ipotesi di più tenue danno inquadrabile nello straining, dacchè anch’esso si porrebbe in violazione dell’art. 2087 c.c. nella misura in cui viola il precetto fondamentale di divieto da parte del datore di lavoro di assumere iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente, ed in particolare di adottare condizioni di lavoro stressogene.

Non avendo la ricorrente, nel caso di specie, assolto alla compiuta deduzione in giudizio di specifiche circostanze rilevanti anche i fini della configurabilità della condotta di strainig, in continuità con l’orientamento giurisprudenziale dominante secondo cui “incomba al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno”, la Corte ha rigettato il ricorso e condannato la stessa ricorrente alla refusione delle spese processuali.




Ultime modifiche: giovedì, 12 dicembre 2019, 15:37